Un’immagine buona

In piazza Regina Margherita, nella cittadina pugliese di Grottaglie, la processione del Venerdì Santo ha già lasciato la chiesa. Si è scomposta in piccole sezioni, come vagoni di un treno, e fa la sua prima sosta nello slargo pieno di gente. Tre tabernacoli dicono della passione di Cristo, l’ultimo del lutto della Vergine: a tenerli e portali in avanti stanno cinque uomini per tabernacolo, due dei quali, per necessità, particolarmente robusti. Tra un vagone e l’altro del rito, si muovono file di distinti signori col volto coperto dal cappuccio bianco: li chiamano Bbubbli Bbubbli. In coda, il coro, sostenuto dalla banda musicale.
La scena mi si apre all’improvviso, senza avere tempo di immaginarla o costruirla in’inquadratura nella testa. Non ho calcolato orari, non sto di certo lavorando, né mi sono fatto un’idea precisa di cosa aspettarmi: mi dico solo che, se decidessi di scattare fotografie, vorrei farlo in modo discreto e naturale, senza pretese e non portando disturbo. Così va — ma solo in parte.
I tabernacoli di Grottaglie, sorretti dai confratelli, sono architetture mobili che avanzano basculando sopra un mare di teste: piccoli baldacchini che racchiudono scene della Passione — Cristo alla colonna, Cristo sotto la croce —, scolpite e protette da strutture pesanti in legno con tendaggi in tessuto. Chiude la processione la statua della Vergine Desolata: una figura interamente nera, velata, il volto perso in un’assenza che nessuno sforzo fotografico può drammatizzare più di quanto non lo sia già. È la fissità delle parti viste nel loro insieme di tableaux vivant a rendere visibile la tensione, più che il dettaglio.
Più tardi, quando la luce comincia a calare, il corteo riprende nel silenzio della piazza; scivola nei vicoli stretti del centro storico, dove non pare utile che la gente lo segua: troppo angusti, immagino. Si ritroveranno di nuovo alla porta d’ingresso del paese, circa un’ora dopo. Sembra che le mura dei palazzi nei vicoli di Grottaglie si pieghino attorno al corteo. Le strade sono strette e irregolari, non lasciano alternative: né alla processione, né ai pochi che ora la seguono. Il ritmo di marcia, più che imposto, nasce dalla struttura stessa del luogo: per evitare che il corteo si sfaldi in gruppi autonomi e rimanga un corpo unico nel dedalo dei vicoli, le pause vengono cadenzate da un cerimoniere a inizio e a fine processione. Ma il rallentamento o la sospensione dell’azione serve anche ad accentuare la dimensione visiva e contemplativa, proprio come in un tableaux vivant.
Mi ritrovo in mezzo a questa rappresentazione codificata, collettiva, emblematica, quasi senza accorgermene, trascinato dal fluire dei devoti e sospito da una faccia tosta — la mia — che ancora una volta mi sorprende. Dopo pochi scatti, sono già più parte del movimento, occupando, senza volerlo, uno spazio che proprio non mi appartiene. Eppure, a ogni fotografia, vengo incoraggiato alla successiva dalla confortevole indifferenza dei partecipanti: la interpreto come un tacito invito a proseguire nella mia opera di disturbo, ma con ogni evidenza rimango l’osservato speciale della serata. Ancora più probabile, però, che i devoti non nutrano sentimenti così tolleranti nei miei confronti, ma che si attengano piuttosto a una postura di totale immersione nel ruolo e nel rito, divenendo estranei a tutto ciò che accade fuori dalla performance.
Procedendo nel corteo, anche il mio sguardo cambia. Si allentano emozioni rimaste più che sotto traccia nei giorni precedenti ma, più semplicemente, torna una senso di presenza alle cose. All’inizio di ogni pratica fotografica, il corpo macchina fa perlopiù da scudo: si cerca di costruire immagini a distanza, tentando di rompere con discrezione la separazione con ciò che si osserva. Si prendono le misure, si sta a vedere. Qualcosa può succedere, come no. A Grottaglie, il movimento stesso del rito riesce a inglobarmi e far succedere qualcosa. Non sono più così esterno alla scena: partecipo alla traiettoria, al passo, sento l'affanno di chi porta sulle spalle i tabernacoli. Li aspetto incastrato in un angolo, e me li sento passare accanto: Bbubbli Bbubbli, tabernacoli, coro, banda. La sensazione è di essere coinvolto in una crisi autentica, radicale: religiosa, appunto. Una crisi a cui sono estraneo — ne ho dimenticato la grammatica di base, a dire il vero —, e quindi più esposto, più vulnerabile alle sue suggestioni.
Questo tentativo del tutto improvvisato di essere dentro a un rito della Pasqua mi rimanda, in modo altrettanto involontario e amatoriale, a una stagione importante della fotografia etnografica italiana, tra gli anni Sessanta e Settanta — se non altro per studiarla e ricordarmi che su questa strada hanno camminato in molti. Un periodo in cui antropologi come Ernesto De Martino e Diego Carpitella, fotografi come Franco Pinna, Arturo Zavattini, Ando Gilardi, e registi come Luigi Di Gianni prendevano molto sul serio ciò che per me è stata un’esperienza legata a un momento di pura evasione e svago. In quegli anni si cominciava a riflettere sul ruolo ambiguo dell’immagine nei contesti rituali: non più semplice documento di “usi altrui”, ma parte attiva della scena osservata.
Fotografare un rito, in quella stagione, significava provare a sottrarsi all’illusione di fissarlo definitivamente. Voleva dire riconoscerne il carattere vivo, mutevole e relazionale, cercando un gesto meno possessivo e più consapevole della distanza che c’è tra chi guarda e chi è guardato. Non ne so di certo molto, ma so che fu una stagione viva, fertile anche sul piano della fotografia amatoriale. Perché, del resto, c’era molto di più da scoprire allora di quanto non ce ne sia oggi.
Con questa breve cronaca delle cose intendo fissare alla memoria scritta un fatto: che la fotografia, in alcune fortunate occasioni, lavora bene dentro di me. Mi porta in un altrove che distanzia dalle atrofie emotive dal quotidiano e, per un tempo variabile — spesso breve — fuori dal cosidetto me stesso (di sempre). Dicendolo, riscopro quindi l'ovvio: che l’essere umano ha bisogno di brecce, di momenti di rivelazione o di piccole estasi. Viviamo compressi, e nessuna psicoanalisi può sciogliere tutto: serve spazio per i corpi, una misura di abbandono.
Scattando il venerdì di Pasqua, ho una modestissima rilevazione: un’immagine che si forma mentre un rito accade, dopo molti giorni che ho oscillato fuori dal mio asse. Un'immagine buona.







