Songo o son desto? Dentro Napoli, e poi fuori: alla vigilia del terzo scudetto.

Testi di Giulio Pedani. Fotografie di Giulio Burroni. L'articolo qui riportato in forma parziale è stato originariamente pubblicato da Esquire il 24 aprile 2023.
È la mattina del 17 marzo 2023 e Nyon, cittadina svizzera ricordata per i ruderi romani e per avere ospitato nel 1937 una conferenza sulla navigazione internazionale volta ad appianare le controversie della Guerra Civile Spagnola, riceve l’attenzione di alcuni milioni di persone: si svolge lì, infatti, il sorteggio dei quarti di finale di Champions League, la massima competizione calcistica per club. Tra le otto squadre giunte a giocarsi l’accesso alle semifinali c’è anche il Napoli. È la sua prima volta, e succede nelle stesse settimane in cui sta per tornare a vincere il campionato italiano dopo trentatré anni: era il 1990, Andreotti governava a trazione pentapartito, la Germania si stava per riunificare, in Iraq cominciava la guerra del Golfo, il Mondiale italiano era alle porte e si inauguravano stadi di cui adesso s’invoca l’abbattimento.
Quando le mani di Patrick Kluivert finiscono di estrarre dai bussolotti i nomi delle squadre, decretando che l’avversaria del Napoli sarà il Milan, la mia mente corre all’indietro.

È la sera del 15 marzo 1989, e dalle immagini di Rai Uno appaiono contrasti cromatici inusuali. Si vedono un prato verde, uno strato compatto di nebbia bianca, una maglia azzurra col numero nove. Il prato e la nebbia sfumano l’uno nell’altra. La maglia azzurra – un punto di azzurro perfetto: il colore di un cielo terso in una giornata fredda – è quella di Antonio Careca. Sembra che il grande centravanti brasiliano stia danzando. Saltella, batte le mani per caricarsi, attende il fischio d’inizio della partita. La sua maglia azzurra spicca nella nebbia. Si potrebbe pensare che sia una notte invernale, che la partita stia per svolgersi in una città del nord Europa, o della pianura padana; che per la scarsa visibilità sia stata magari a rischio rinvio fino a pochi minuti prima.
L’inquadratura si allarga. Accanto a Careca c’è un’altra maglia azzurra, e ha il numero dieci. L’altra metà del campo è occupata da calciatori in maglia bianconera, anche loro in attesa, le mani sui fianchi, forse galvanizzati, forse atterriti dal fragore che li circonda. Oltre il prato, dietro la nebbia si intravede un muro umano. Non è una città del nord Europa, è Napoli, in una mite serata già primaverile. Il frastuono assordante proviene dalle ottantacinquemila presenze stipate nello stadio San Paolo. Il fischio d’inizio è in ritardo perché l’arbitro attende che la nebbia, non prodotta dall’umidità di una brughiera norvegese, ma da decine di fumogeni, si diradi. Si sta per giocare Napoli-Juventus, partita di ritorno dei quarti di finale di Coppa Uefa. All’andata, a Torino, ha vinto la Juventus due a zero. Il Napoli deve rimontare, e pare che la città non aspettasse altro. Il San Paolo ribolle, la nebbia si dissolve, inizia la partita. I decibel dei fischi sul primo pallone giocato dalla Juventus spingono a coprirsi le orecchie con le mani. Il boato al primo pallone giocato dal Napoli, con Careca lanciato in campo aperto, mette sinceramente i brividi.
Il Napoli segna tre reti, elimina la Juventus ai tempi supplementari nel tripudio della folla, impazzita di felicità. Proseguirà la corsa fino a vincere la prima, e per adesso unica, coppa europea della sua storia.

È il pomeriggio del 10 agosto 1973, appena sedici anni prima di quella storica partita.
I napoletani sfidano il divieto assoluto di balneazione e nuotano in un mare maleodorante e avvelenato, sulle stesse spiagge di sabbia scura del litorale vesuviano in cui sfociano le acque nere e gli scarti di lavorazione industriale di una città che, in poco meno di un ventennio, ha raddoppiato la sua popolazione e la sua estensione territoriale.
Napoli ha il tasso di mortalità infantile più alto d’Europa, in città è endemica la presenza di malattie come il tifo e l’epatite virale, lo spazio urbano è tra i più sovraffollati del mondo e sta per diventare l’epicentro dell’ultima epidemia di colera dell’Europa occidentale.
Sono i mesi in cui Thomas Belmonte, giovane etnologo newyorkese, decide di stabilirsi a Palazzo Amendola, in vico Melofioccolo, battezzandolo Fontana del Re, e di vivere nel cuore dei quartieri proletari. Quello che descrive è un luogo in cui “I deboli soffrono per mano dei più forti, solo per assumere il ruolo del forte con chi è più debole di loro”.
In cui i cittadini sono “Lottatori esistenziali. Spesso devono combattere fuori dalle regole e si fanno sempre male”.
Un luogo “Di dolore e ultima speranza, una città che ti porge la mano mentre nell’altra nasconde il coltello”, in cui, “Nel teatro di crudeltà che sono i bassifondi, ciascuno recita il suo piccolo ruolo di canaglia”.
In cui “la gente povera, legata com’è al mondo, ne assume i contorni più aspri e ne rimette in scena gli aspetti crudeli”, in cui “Provare dubbi nei confronti degli amici, il disagio, la paura di una ritorsione più o meno giustificata sono il nocciolo della vita sociale delle classi basse” e “Una persona priva della nomea di violento, o di parenti maschi violenti, ha poche speranze”.
Il terremoto del 23 novembre 1980 e la diffusione delle droghe pesanti arriveranno a breve, i dati sull’istruzione giovanile e la disoccupazione resteranno tragicamente stabili, e anche (o proprio) per questo non dovrebbe essere difficile leggere, nell’entusiasmo di un popolo per una semplice impresa sportiva, la soddisfazione di alcune necessità primarie, comuni a tutti: il bisogno di dignità, forse di consolazione, certamente di bellezza.

Ora, nel 2023, la città è di nuovo in simbiosi con la propria squadra di calcio.
Dopo Maradona ci sono stati gli inferi della serie C, gli anni bui del fallimento e la lenta risalita, ma già altre volte si è riacceso il sogno dello scudetto: è accaduto con i sudamericani Cavani e Lavezzi, e più in generale nelle dodici stagioni in cui i campi sono stati solcati dalla cresta di Marek Hamsik e da Lorenzo Insigne, nato a Frattamaggiore, speranza agrodolce di profeta in patria; e più che mai da quando Kalidou Koulibaly si è impossessato della difesa, mentre in attacco un altro argentino, Gonzalo Higuain, segnava trenta reti a stagione saltando sotto la Curva A sul tempo di Un giorno all’improvviso, e il faccione di Maurizio Sarri spuntava dalla panchina e sulle bandiere.
Molte volte il Napoli ci è andato vicino, però non è più successo. Come se l’entusiasmo, sempre pronto a esplodere, fosse stato chiuso dentro una lampada, o un vaso. L’attesa troppo lunga ha rafforzato il timore di non essere all’altezza, le occasioni perdute hanno generato rassegnazione, l’entusiasmo ha ceduto il passo al fatalismo e a una specie di disamore terapeutico, come quando ci si distacca da qualcuno o qualcosa per soffrire di meno. In estate si è toccato il punto più basso: la partenza di Koulibaly, Mertens, Insigne, sostituiti da uno sconosciuto coreano, da un giovane georgiano e da un mix di acerbe promesse ed esperti mestieranti, è sembrata la definitiva bandiera bianca.
Incredibilmente, nel momento di maggiore sconforto, dalle ceneri dell’ennesima delusione è nata una squadra portentosa. Il coreano Kim, detto ‘O Cinese, si è imposto in breve come miglior difensore del campionato. Il granitico capitano Di Lorenzo è sembrato incapace di sbagliare. Le trame dell’architetto Lobotka e gli strappi del colosso Anguissa si sono messi al servizio dei due fuoriclasse, il funambolo georgiano Kvaratskhelia, che in pochi giorni si è fatto conoscere dal mondo, e il centravanti Osimhen, portato ad assumere più volte nella stessa partita le sembianze di un uragano. Se le basi di un successo sportivo ad alti livelli, naturalmente, sono programmazione, professionalità, cura del dettaglio e continui perfezionamenti, c’è stato comunque qualcosa di prodigioso nell’alchimia con cui, nel giro di pochi mesi, un gruppo che sembrava in dismissione si è trasformato in un congegno perfetto che ha chiuso il campionato ancora prima che finisse l’inverno, sbalordendo la città stessa, unica metropoli italiana rappresentata da una sola squadra, e innescando i preparativi di una nuova, enorme festa.
La città in procinto di celebrare il terzo scudetto, la settimana irripetibile che separa le due sfide al Milan nei quarti di finale di Champions League, il semplice fatto di passare tre giorni di primavera a Napoli: è abbastanza per partire.
È la sera del 12 aprile 2023.
Domani si va a Napoli.
Stasera si gioca la partita di andata dei quarti di finale di Champions League. Il Napoli, pur senza Osimhen, sembra poter prevalere. Pare in controllo della situazione, ma lentamente l’inerzia della partita si sposta. Il Napoli non riesce a segnare, indietreggia, si innervosisce. Spende preziose energie in proteste inutili. Patisce la pressione del pubblico ostile. Cede alla statura storica dell’avversario. Perde. Forse ha cominciato a perdere dal momento del sorteggio, quando la coscienza della propria forza, quest’anno chiarissima, superiore, ha instillato un tarlo, un rovello: l’inquietante eventualità che ogni dettaglio potesse scivolare su un piano inclinato, e piegarsi in favore dell’avversario.
La pioggia insistente tormenta il sonno.
Sogno la frase “Napoli non cammina, ma addirittura vola verso un domani migliore”, che il cardinale Marcello Mimmi pronunciò a proposito della pista per elicotteri inaugurata nel 1955 sul terrazzo del grattacielo della Sme, al rione Carità.
Sogno popolane che durante un comizio dell’armatore Achille Lauro gli urlano “Cummandà vuje tenite o pescione, non dovete morire mai!”.
Sogno Corrado Guzzanti, nella figura di Padre Gabrielli, che chiede Nu succo e mellone.
Sogno l’assurdità della vecchia semifinale Mondiale Italia-Argentina giocata a Napoli, in uno stadio San Paolo tutto sommato fedele alla bandiera ma invaso, per la semplice presenza di Maradona, dall’atmosfera surreale che avrebbe schiacciato la Nazionale.
Sogno i miei personaggi di finzione preferiti, Papilù, Vincenzo Malinconico, Tony Pagoda, sogno palazzo Donn’Anna e la fiocina di Massimo de Luca, sogno Serao, Ortese e Lo cunto de li cunti, sogno Giuliana de Sio che dice “Se devo essere sincera…”, Troisi che la blocca e dice “NO!”, Titta di Girolamo che dice “La sfortuna è la scusa dei perdenti”, Gorbaciof che fa la faccia dell’orango sul bus, Pisellino che spara col mitra in spiaggia, Sandro l’Apache, il protagonista di Ultras, che porta a tavola le vongole fujute, Luciano Ciotola, il pesciaiolo di Reality, che crede di essere spiato dal Grande Fratello attraverso un grillo.

È la mattina del 13 aprile 2023.
Si cammina per i vicoli di Forcella.
Nei bar si parla della partita di ieri sera. C’è delusione, ma tutti sono già proiettati sulla partita di ritorno, tra sei giorni: il Napoli è la squadra migliore, in novanta minuti può fare pure cinque reti, e con la spinta del Maradona...
Piove a sprazzi.
Le screpolature delle facciate sono un salutare antidoto alla smania del decoro, agli intonaci laccati, all’abbellimento forzato che è la rovina dei centri storici.
La pavimentazione a cazzimbocchi è lucida e pulita.
Il disordine e l’angustia dell’architettura possono salvare l’autenticità dei vicoli dall’omologazione turistica.
Scendiamo in piazza Crocella ai Mannesi.
Si dice che il Gennaro di Jorit Agoch, inaugurato nel 2015, riproduca il volto di un operaio trentacinquenne. L’immagine del protettore è alta quindici metri. L’oro della mitra e il porpora della veste si accordano alla carnagione bruna. Il murale è il gioiello della piazza. Il rione non è più ricordato solo per la faida di camorra.
Spaccanapoli, via dei Tribunali, piazza Bellini, piazza del Gesù.
Sopra ogni vicolo sono appesi festoni di plastica azzurra che vibrano agitati dal vento. Sopra ogni piazza sono appesi tricolori e magliette del Napoli: magliette del primo scudetto, con sponsor Buitoni, magliette ibride, metà azzurre e metà albicelesti, magliette col dieci, col nove, col tre del Terzo Scudetto. Sopra ogni scalinata sono appesi striscioni con scritto Ricomincio da Tre e Scusate il ritardo.
Le strade traboccano d’azzurro. Come tutte le passioni ardenti, quella di Napoli per la sua squadra è contagiosa. In città straripa l’attesa per un finale di stagione che resterà comunque nella storia.
Si cammina per la Sanità.
Le donne anziane che si affacciano ai balconi sembrano spiriti a guardia di un mondo arcano.
Il palazzo dello Spagnolo è un capolavoro metafisico, via delle Fontanelle una strada misteriosa che potrebbe portare a una foresta, sui suoi fianchi si aprono continuamente grotte scavate nel tufo, fino al cancello di un cimitero bellissimo.
