L'anniversario di una liberazione, "che non fa bene e non fa male"

Su L'anniversario di Andrea Bajani

L'anniversario di una liberazione, "che non fa bene e non fa male"
Annie Spratt - Unsplash

Negli ultimi anni, la scelta di interrompere i legami con la propria famiglia d’origine è emersa come una questione sempre più dibattuta. La rottura volontaria, spesso associata al concetto di no contact, non è più soltanto un tema sommerso o relegato a situazioni estreme, ma sta diventando un’esperienza condivisa e quindi analizzata. La decisione di allontanarsi dai genitori o da altri familiari può derivare da abusi e dinamiche tossiche, ma anche da un più generale senso di incompatibilità, dal rifiuto di aspettative oppressive o dal bisogno di autodeterminazione emotiva. E se da un lato questa scelta è vista da molti come un atto di emancipazione, dall’altro essa continua a essere un tabù, soprattutto in società in cui la famiglia è considerata un valore indiscutibile. In Italia, dove la struttura familiare è spesso un sistema chiuso, questa forma di distacco può apparire ancora più radicale, una frattura che non trova facile legittimazione.

É su questo terreno che si inserisce L’anniversario di Andrea Bajani, un romanzo che non racconta soltanto il distacco di un figlio dalla sua famiglia d'origine, ma ne rappresenta processo lento e doloroso di elaborazione. Bajani affronta il nodo più complesso del legame familiare: non quello della conflittualità manifesta, ma quello della rimozione, del silenzio e della prigionia invisibile di chi, per crescere, è costretto a uscire da una storia che gli è stata imposta.

Nel suo romanzo L’anniversario, Andrea Bajani mette in scena un racconto di rottura e consapevolezza, un’indagine sulle dinamiche familiari che si reggono su silenzi e patti impliciti. Il protagonista, un figlio ormai adulto, cresciuto in un sistema familiare opprimente, affronta il nodo centrale della narrazione: la difficoltà di nominare e interrompere legami tossici quando questi si radicano nelle relazioni di sangue.

Bajani costruisce una famiglia come un sistema chiuso, in cui la sottomissione, la manipolazione e la ricerca di un amore mai realmente concesso diventano strumenti di controllo. Il vero tabù non è il conflitto, ma il suo opposto: il divieto tacito di mettere in discussione la struttura stessa della famiglia, come se essa fosse un’entità intoccabile, impermeabile a qualsiasi riscrittura. Il mezzo per riscrivere la storia è proprio il dispositivo del romanzo.

"Un dispositivo - dice il protagonista - che dia corpo a un universo di cui non sono stato testimone diretto, se non parzialmente. Un dispositivo che produca fatti, pensieri e persino una memoria del tutto differente, alternativi, generati nell’atto dello scrivere. Conseguenza dunque più dell’invenzione che del ricordare. In cui mia madre esiste indipendentemente persino da sé stessa".

Al centro della vicenda domina la figura del padre, tratteggiata non solo attraverso il prisma del patriarcato ma anche come espressione di una patologia personale mai dichiarata. La violenza del rapporto tra padre e figlio non è soltanto la manifestazione di un ordine simbolico, ma anche di un’attitudine distruttiva, profondamente radicata nel singolo individuo che la pratica. Il racconto, affidato alla voce di un figlio maschio, diventa così un atto di rifiuto della continuità generazionale della sopraffazione: non una condanna totale della figura paterna, ma una decostruzione del potere che essa ha esercitato.

"L’ingombro familiare era tutto per mio padre, che si era messo al centro della scena e aveva scritto per così dire la versione unica del romanzo familiare. Quella di uomo che aveva tutto da riscuotere dalla vita, il che implicava che fossimo tutti a pagare, a bruciare nel fuoco insieme a lui".

Se la figura del padre incarna l’oppressione, quella della madre si configura come un’ombra enigmatica. La sua presenza è marginalizzata, non perché irrilevante, ma perché rimossa dalla narrazione familiare.

"Non ho mai scritto di mia madre. Non ho mai pensato che di lei valesse la pena parlare, né in fondo l’ho mai fatto con nessuno. Persino nelle più intime delle conversazioni, quando è comparsa è stato soltanto per il baluginio di una parola incastonata nella frase. La porzione di mondo che occupava era così trascurabile da non chiedere udienza".

Bajani si interroga sul destino delle donne intrappolate in ruoli di rinuncia e abnegazione: la madre del protagonista è stata sempre così o è diventata tale? Il romanzo non fornisce risposte definitive, lascia solo emergere il dramma di una voce femminile silenziata, un destino di annullamento che il figlio cerca di ricostruire attraverso la scrittura.

Tutto il testo quindi ruota attorno alla ricostruzione della madre, un’operazione che diventa necessaria proprio perché nella vita vissuta lei non era mai stata percepita davvero. È un tentativo di restituirle spazio e consistenza, di illuminarne i contorni sfocati. Ma il paradosso è che, parlando di lei, l’autore finisce per definire ancora una volta il padre. Ogni frase sulla madre è un’ombra che cade su di lui, ogni assenza di lei è il riflesso di una presenza invadente.

In poco più di 100 pagine, Bajani accende il suo medium di ri-comprensione della biografia del narrante in un processo che infine culmina nella sua liberazione dalla prigione del nucleo familiare.

È per ragioni del tutto casuali che la lettura de L'Anniversario sia seguita di poco a quella de Il fuoco che ti porti dentro di Andrea Franchini, dove la figura materna è altrattando centrale, ma assume qui un ruolo molto diverso rispetto a quella descritta da Bajani. Se in L’anniversario la madre è una presenza quasi eterea, annullata dal contesto familiare, nel romanzo di Franchini essa è invece il fulcro vivo della violenza. La madre di Franchini è attiva, esercita il suo potere attraverso la manipolazione e la sopraffazione psicologica, mentre quella di Bajani è una vittima che si lascia inghiottire dal sistema familiare senza opporre resistenza. Tuttavia, il meccanismo della violenza e del legame rimane lo stesso: sia in Bajani che in Franchini, il protagonista deve confrontarsi con un rapporto familiare tossico che si nutre di coercizione affettiva e da cui è necessario emanciparsi per trovare una propria voce.

Il titolo stesso, L’anniversario, suggerisce un’elaborazione del passato che avviene nella distanza, sia temporale che geografica. La distanza è ciò che permette la narrazione, offre una prospettiva diversa su vincoli che, in una cultura come quella italiana, restano spesso indissolubili.

Qui si inserisce un confronto con il fenomeno sempre più diffuso della rottura familiare volontaria: tagliare i ponti con la propria origine diventa un atto di autodeterminazione, per quanto doloroso e carico di ambiguità.

La conclusione del romanzo è tutt'altro che consolatoria: "e non fa bene e non fa male", scrive Bajani. Perché il dolore del distacco non si esaurisce mai del tutto, ma che, in qualche modo, si impara a conviverci. Non c’è un trionfo, non c’è una vendetta: solo il desiderio di raccontare, di trovare un senso nei vuoti lasciati dalla famiglia.