La macchina e il suo doppio

La macchina e il suo doppio

All’incirca nello stesso periodo in cui il filosofo francese Gilbert Simondon porta a maturazione la sua una nuova concezione della tecnica, non più come semplice insieme di strumenti, ma come un processo di relazione che lega l’uomo, le macchine e l’ambiente in un’evoluzione reciproca, Jean Giraud, sotto lo pseudonimo di Moebius, inizia a costruire universi grafici in cui quella stessa interdipendenza prende forma visiva e narrativa.

Pur avvalendosi di linguaggi differenti, i due pensatori vogliono entrambi a far vacillare l’immagine della tecnica ridotta a puro strumento: per Simondon la tecnica è una modalità dell’essere, una forma d’esistenza; per Moebius è una mitologia contemporanea, un intreccio di simboli e di poteri che si sviluppano all’insaputa nostra.

Nella tavola sopra, dove un laboratorio logico e sterile sovrasta un inferno di ingranaggi e operai incatenati, Moebius cattura la frattura della modernità tecnologica che Simondon cercava di ricomporre a livello filosofico: sopra sta l’universo delle superfici immacolate e dei camici candidi: controllo, misurazione, simulazione; sotto, nel regno dell’energia e dei corpi, il lavoro, materia grezza che nutre il sistema.

Moebius non si limita a rimarcare un passato tecnico, o meccanico. Nelle sue tavole mette a nudo la duplice architettura che abita ogni dispositivo: ciò che appare operativo in superficie poggia, in realtà, su un substrato invisibile, al contempo umano e materiale.
Impossibile non pensare all'oggi, quando davanti alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, quella duplicità si è soltanto affinata diventando più sottile e più difficile da scorgere.

Atlas of AI di Kate Crowford ci dice che, sotto la patina di una retorica quasi eterea - quella degli algoritmi, del cloud e della tanto cantata autonomia cognitiva - si cela una vera e propria filiera, densa di materia, di energia, di lavoro e di potere. Crawford, dal canto suo, ribadisce che l’intelligenza artificiale non è affatto “artificiale”: si erge su corpi, suoli e dati, su infrastrutture estrattive che prosciugliano risorse naturali, mobilitano la manodopera umana e inglobano capitale cognitivo.

L’illusione dell’autonomia algoritmica - la lucida facciata del laboratorio di Moebius - si regge ancora su un intricato sottosuolo di miniere di litio, colossali data center, annotatori invisibili, una morsa di precarietà e una rete di disuguaglianze.

Il paradosso satirico che Moebius tracciava viene, da Crawford, svelato come un vero schema di sfruttamento: l’IA non è un’intelligenza “nuova”, bensì una ricodifica tecnica del medesimo vecchio regime di estrazione, dal carbone ai dati, dalla forza fisica alla cognizione.

Si tratta di un meccanismo perpetuo che frattura la realtà in due piani distinti: la patina del calcolo e la sostanza del lavoro.

È in questo senso che voglio vedere un parallelo tra la riflessione di Crawford e l’obiettivo che Simondon aveva affidato alla filosofia della tecnica: ricucire le spaccature della modernità, rendendo nuovamente visibili i legami che uniscono il funzionamento alla vita.
Laddove Simondon suggeriva di concepire la macchina come un essere in divenire, inserita in una rete di relazioni che comprende l’umano, Crawford ci dice che tale rete è anche politica, ecologica ed economica, e avverte che se ne trascurariamo la materialità equivale a ignorare le asimmetrie fra superficie e sottosuolo.

I laboratori di oggi non si reggono più sugli archi di pietra e catene di Moebius, ma si ancorano a strati di server, a cavi che solcano le profondità marine e a catene di produzione che attraversano il globo. Sotto ogni algoritmo si cela un territorio, sotto ogni dataset si muovono corpi che etichettano, correggono, subiscono; sotto ogni promessa di “intelligenza” si accumula un fardello di energia e sfruttamento.

Il sottosuolo non è sparito, è solo diventato più difficile da vedere.
Ci vuole quindi una coscienza critica della tecnica: cogliere nella macchina un riflesso del nostro stesso processo di individuazione e ammettere che ogni automatismo ha un prezzo, sia umano che ambientale.

Per dirla con Crowford dobbiamo smontare l’ideologia del disincarnato.