La geografia è destino (?). Come i Baltici stanno ridisegnando le loro società sulla base della deterrenza.

La geografia è destino (?). Come i Baltici stanno ridisegnando le loro società sulla base della deterrenza.
Cipolle al sole nella microisola di Pirissar, a qualche bracciata a nuoto dal confine con la russia, quello che corre sul Lago di Peipus.

In Lituania, le scuole insegnano a costruire e usare droni, leggo proprio durante i giorni del mio recente viaggio nei Baltici. Sentita dall'Italia, quest'idea potrebbe sembrare partorita da una pura paranoia bellica, ma per i lituani è percepita come una misura di autodifesa necessaria a preparare gli adulti di domani alla minaccia “esistenziale” che si affaccia da est: tutta la comprensione di Lituania, Lettonia ed Estonia si gioca sull'equilibrio con cui si vuole affrontare questo dilemma.

L’invasione russa dell’Ucraina ha reso ancora più tangibile ciò che per i Paesi baltici era già realtà: vivere lungo la frontiera significa convivere con la possibilità dell'invasione. Possibilità che più volte nel secolo scorso è diventata tangibilissima realtà: nel corso del Novecento le repubbliche hanno conosciuto l’occupazione sovietica, l’annessione forzata del 1940, l’invasione delle truppe tedesche, le deportazioni di massa verso la Siberia e poi di nuovo l’occupazione dopo la Seconda guerra mondiale, durata fino al 1991. La memoria di quelle invasioni è ancora viva e plasma il modo in cui le società baltiche interpretano la sicurezza oggi.

Dal 2022 in poi le tre repubbliche hanno accelerato processi avviati da tempo: l’aumento delle spese militari, la messa a punto di piani di evacuazione e rifugi, il rafforzamento della cooperazione con NATO e UE.

Monumento sovietico alla guerra, al lavoro e alla scienza. Tallin

Il punto più vulnerabile di questa difesa è il noto corridoio di Suwałki, la sottile striscia di terra lunga circa 65 chilometri che separa l’exclave russa di Kaliningrad dalla Bielorussia. Per i pianificatori militari della NATO rappresenta il peggior incubo: se Mosca lo chiudesse, i tre Paesi baltici verrebbero isolati dal resto dell’Alleanza. Non sorprende quindi che questa fascia di territorio sia al centro di esercitazioni militari su larga scala, come la serie Defender Europe, in cui si simula il rapido dispiegamento di truppe statunitensi e alleate per tenere aperta la linea di rifornimento. Nel 2023 la Germania ha annunciato l’invio di una brigata permanente in Lituania, un impegno senza precedenti che segna il passaggio da una “presenza rotazionale” a una “difesa in avanti” permanente. Allo stesso tempo, la Polonia ha rafforzato le sue forze armate lungo il confine e sta costruendo nuove infrastrutture militari e logistiche per facilitare il movimento di mezzi pesanti verso i Baltici.

Maarjamäe Memorial, in onore dei caduti in difesa della patria sovietica

Si sente, visitandole, che Lituania, Lettonia ed Estonia si considerino il laboratorio avanzato dell’‘Occidente collettivo’ – per usare l’espressione con cui Vladimir Putin definisce i Paesi NATO e UE. Qui si sperimenta in prima persona cosa significhi deterrenza: non solo esercitazioni militari ma campagne di comunicazione, leggi contro la disinformazione, programmi di educazione civica e di preparazione della popolazione. È un esperimento ad alta tensione, che mette a nudo anche le fragilità e inevitabili contraddizioni di questa postura.

Lo stato di allerta permanente agisce continuamente sulla società, accellerando processi di cambiamento che altrove si sarebbero compiuti in decenni. Le capitali baltiche sono diventate luoghi in cui si mescolano tecnologia e intelligence, start-up e think tank, centri culturali gentificati e basi militari. La cybersecurity è trattata come un’infrastruttura critica, al pari dell’energia o dei trasporti. L’Estonia, in particolare, ha fatto della resilienza digitale il proprio marchio di fabbrica: le sue “data embassies” all’estero garantiscono che, anche in caso di occupazione fisica del territorio, lo Stato possa continuare a funzionare online. La geopolitica qui non è materia astratta interpretata dagli arupisci della prima seratata tv: è presenza quotidiana che si legge nei manifesti, sconfina nei festival culturali e nella lingua dei media. È anche il contesto che plasma le complesse politiche migratorie, la gestione delle minoranze russofone, la legislazione sulla disinformazione. Vivere nei Baltici, insomma, significa assumere che la difesa non è solo affare militare, ma anche cosa di cultura e identità nazionale. E farsi carico delle innumerevoli fragilità e rischi di un posizionamento del genere.

Karosta, Lettonia

La questione della memoria e dell’eredità sovietica è non a caso uno dei campi di battaglia più sensibili della regione. Narva, città di confine in Estonia, ne è un simbolo ben conosciuto: qui oltre l’80% della popolazione è russofona, e per molti il russo resta la lingua della vita quotidiana. Questo la rende un luogo sospeso, dove il confine politico dell’UE e della NATO incontra un confine culturale più sfumato.

Dopo il 1991, Estonia e Lettonia hanno adottato politiche di cittadinanza molto restrittive. Solo chi poteva dimostrare legami familiari pre-1940 otteneva automaticamente la cittadinanza; gli altri dovevano passare attraverso un processo di naturalizzazione, esami di lingua e storia nazionale. Nacque così la figura del “non-cittadino”, titolare di un passaporto grigio, privo del diritto di voto a livello nazionale. Lituania, più pragmatica, concesse invece la cittadinanza in modo esteso, riducendo i potenziali conflitti identitari.

L’ex Palazzo dello Sport di Vilnius, un massiccio esempio di architettura modernista sovietica, domina ancora il paesaggio urbano con la sua mole in cemento grezzo e la caratteristica copertura a volta

Queste politiche erano pensate per rafforzare l’identità nazionale e ridurre il rischio di ingerenze russe, ma hanno generato tensioni e accuse di discriminazione, soprattutto da parte di Mosca. Negli ultimi anni, con l’aggravarsi del contesto di sicurezza, i governi hanno accelerato la naturalizzazione e promosso l’insegnamento della lingua nazionale nelle scuole russofone, pur mantenendo un approccio fermo alla transizione linguistica. L’Estonia punta a completare entro il 2030 il passaggio di tutte le scuole all’estone come lingua di insegnamento.

In parallelo, è in corso una vera e propria riscrittura dello spazio pubblico. Dal 2022, la rimozione dei monumenti sovietici è diventata una priorità: torri televisive, memoriali e statue sono stati smantellati o trasferiti nei musei  - ma più frequentemente nascosti in anfratti poco accessibili -, con un intenzione visibile e altamente simbolica: chiudere il capitolo dell’occupazione sovietica e impedire che quei luoghi diventino punti di aggregazione per manifestazioni filo-russe.

Questa è la promenade centrale di Sillamäe, cittadina costiera dell’Estonia nord-orientale affacciata sul Golfo di Finlandia: costruita negli anni Quaranta e Cinquanta per servire la ‘città chiusa’ nata attorno all’impianto di lavorazione dell’uranio sovietico, è in totale sospensione temporale. Accidentalmente Wes Anderson.

La scelta, ovviamente, non è priva di controversie. Per alcuni storici e attivisti, la cancellazione rischia di semplificare la memoria collettiva, di ridurre la complessità di un passato che ha lasciato segni profondi nelle famiglie e nelle comunità: come faranno, insomma, i nuovi nati a farsi un'idea con la propria testa se gli spazi in cui crescono sono stati epurati dai segni della storia? Bel dilemma.

Camminando per le strade Tallinn, colpisce quanto sia difficile trovare tracce del passato sovietico. Molti monumenti sono stati rimossi, altri spostati ai margini della città o in veri e propri “cimiteri di statue”. È una scelta comprensibile: per i Paesi baltici, che hanno vissuto l’occupazione sovietica come un trauma, i memoriali e le statue non sono semplici reperti storici, ma simboli di oppressione. Eppure mi chiedo se la cancellazione sia sempre la risposta migliore: come faranno le nuove generazioni a costruirsi una prospettiva storica solida?. A trent’anni dall’indipendenza, e nonostante la guerra in Ucraina, abbattere statue è un gesto definitivo che però lascia poco spazio alla complessità. Contestualizzare, spiegare, inquadrare storicamente questo è decisamente più raro da trovare, ma possibile.

I più buoni cynnamon roll di Talllin li trovi al mercato centrale. Qui negli anni '90 si svolgevano i principali traffici illegali della città.

Un esempio interessante di ri-contestualizzazione è quello di Juhan Smuul, scrittore amatissimo in epoca sovietica. La sua statua si trova ancora in un parco di Tallinn, ma oggi è accompagnata da una targa che racconta la sua biografia completa: non solo il poeta di successo, ma anche il membro del Partito Comunista e il deputato del Soviet Supremo. Nel 2023 si è saputo che fu coinvolto nelle deportazioni di massa del 1949, una delle pagine più buie della storia estone. Invece di rimuoverlo, l’Unione degli Scrittori ha scelto di lasciare la statua dov’è, aggiungendo un testo che permette a chi passa di conoscere l’intera storia.

Adolescente nell'isola di Kihnu, in Estonia. Ultimo anno di scuola prima di sbarcare sulla terraferma e diventare in poco tempo più indipendente di quanto non lo sia io adesso.

Parallelamente alla cancellazione, si costruisce un nuovo immaginario. La foresta e il paganesimo diventano miti fondativi, con un richiamo alla resistenza partigiana dei fratelli della foresta che combatterono contro l’occupazione sovietica. La resilienza è celebrata come carattere collettivo, la tecnologia e la crescita verde sono i simboli del moderno: l'asticela del nazionalismo è pericolosamente a ridosso delle linea di guardia (qualcunque essa sia).

Anche le politiche verso le minoranze russofone restano il tema delicato. Da un lato, una popolazione integrata è considerata meno vulnerabile alla propaganda del Cremlino; dall’altro, il rischio è che un approccio troppo rigido possa alimentare frustrazione e alienazione, proprio nelle comunità che si vorrebbero includere. È un equilibrio difficile: tra sicurezza e diritti, tra il bisogno di chiudere un capitolo traumatico e quello di riconoscere la pluralità delle memorie che abitano lo stesso territorio.

Questa tensione non si legge solo nelle politiche di difesa e nella legislazione, ma anche nello spazio urbano. A Vilnius, un grande murales raffigura la NATO come un ombrello che protegge la città. A Riga, un manifesto mostra Putin come uno scheletro, posizionato di fronte all’ambasciata russa. Ne avevo visto uno identico a Tbilisi, altro centro nevralgico all'ombra dell'Orso.

Mercato di Riga

Guardare ai Baltici come “laboratorio dell’Occidente collettivo” significa però anche riconoscerne le contraddizioni. La retorica del “confine orientale della democrazia” è potente e mobilitante, ma rischia di produrre una visione binaria: da un lato la civiltà liberale, dall’altro l’autoritarismo russo, nel mezzo il nulla. E in questo schema, le identità miste, le biografie sospese tra le due culture trovano decisamente poco spazio.

Le politiche di cittadinanza e di transizione linguistica, sebbene pensate come strumenti di sicurezza nazionale, hanno effetti concreti sulle comunità russofone. Per una parte della popolazione, la sensazione di essere tollerati ma non pienamente inclusi resta viva, e le misure più recenti — come il passaggio forzato all’estone o al lettone nelle scuole — rischiano di accentuare questa frattura. È un terreno delicato, perché la narrativa ufficiale parla di integrazione, ma se il processo è percepito come coercitivo può generare alienazione.

Qui sta uno dei rischi maggiori: quello di creare, involontariamente, un nuovo punto di tensione interno, una sorta di “secondo Donbass” potenziale, che Mosca potrebbe sfruttare come pretesto per interventi ibridi, campagne di disinformazione o destabilizzazione politica. Ovvero: potrebbe farlo molto più di quanto non abbia fatto finora.

Infine, c’è il tema più ampio di una società che vive in stato di allerta permanente. Se da un lato questa postura ha rafforzato la coesione nazionale e la preparazione civile, dall’altro rischia di produrre un clima di sospetto generalizzato, in cui ogni dissenso può essere letto come una minaccia alla sicurezza. 

Il monumento all'energia di Elektrėnai, cittadina archetipica costruita negli anni Sessanta per ospitare i lavoratori della più grande centrale elettrica della Lituania: l'uomo scolpito solleva un modello atomico stilizzato verso il cielo.