La stagione estrema

La stagione estrema

Bruciare sterpaglie lungo le strade. Bruciare gli sfalci di un lavoro di pulizia sui margini dei campi incolti appiccando fuochi che spesso sfuggono al controllo.

Potrei esagerare, ma da una recente visita di lavoro a Nardò, in Salento, sembra questa una delle maggiori preoccupazioni di certi zelanti agricoltori che hanno così a cuore la manutenzione del verde pubblico da non potersi trattenere da un gesto le cui conseguenze sono oggi perlopiù disastrose, e le cui motivazioni mi restano in gran parte ignote. 

Nel breve viaggio dal centro di Nardò al Parco Regionale di Porto Selvaggio dominano i colori opachi della siccità, l’aria tremola sul parabrezza e il termometro dell’auto segna 42 gradi. Superato l’ingresso del parco, il paesaggio cambia progressivamente. Le colline qui sono coperte da un bosco di pini d’aleppo che fu piantumato dal Corpo Forestale dello Stato a partire dagli anni 1952-54, quando ancora il parco era proprietà del Barone Fumarola.  Tra le pieghe della macchia mediterranea resistono ancora i muretti a secco, e arrivati alla sommità dei pianori lo sguardo si apre su calette rocciose dove, 40.000 anni fa, Homo Sapiens interagiva con Neanderthal. 

Negli anni Settanta, gran parte di quest’area era ancora in mano a privati ed esposta al rischio concreto di lottizzazioni edilizie lungo la costa. Ma fu proprio allora che prese forma una mobilitazione trasversale, culminata nel 1980 con una scelta coraggiosa del Comune di Nardò: l’acquisto e la destinazione pubblica di una vasta porzione del territorio. Nello stesso anno, la Regione Puglia istituì il Parco di Porto Selvaggio — tra i primi in Italia nati da un’alleanza tra cittadini, amministrazioni e cultura politica locale.

Quella battaglia civile fu portata avanti con determinazione e coraggio da Renata Fonte, assessora alla cultura e all’ambiente del Comune di Nardò, che si oppose strenuamente ai progetti speculativi, fino a pagare con la vita il suo impegno: venne assassinata nel 1984 per motivi legati proprio alla sua attività politica in difesa del territorio. La sua vicenda è l’atto fondativo della coscienza ambientalista della zona.

Ma questa è un’altra bellissima storia, che — insieme al paesaggio preistorico — rende questa zona unica, e merita di essere raccontata a parte.

Usciti dal parco, oltre il suo perimetro, il contrasto torna evidente. Masserie abbandonate si alternano a ville isolate dal mondo da alte recinzioni. All’interno, racconta la voce popolare, si riuniscono d’estate misteriosi consessi che decidono le sorti del Paese. Poco più in là, baracche cadenti affiorano tra orti dismessi e ruderi della pastorizia sparsi nella campagna vasta.

Non c’è movimento, se non qualche fiamma che arde pigramente a bordo strada, nei campi vicini, dentro i tronchi degli ulivi: saranno quattro, forse cinque ettari colpiti. Più avanti, un secondo focolaio, apparentemente più contenuto, sprigiona fiamme più alte. Un fuoco cova dentro un ulivo, brucia lento, con una calma irreale.

È un’immagine tragica e affascinante, che racchiude l’ambivalenza archetipica del fuoco: forza primordiale e minaccia, gesto che purifica e distrugge. Mi fermo a scattare un paio di foto mentre un'uomo osserva la scena da poco lontano: non ha l’aria di essere entusiasta della mia presenza. Forse è lui -  mi dico - ad aver appiccato il fuoco e ne sta monitorando lo sviluppo: ma non ho alcun elemento per esserne certo. 

Sia come sia, è una scena del tutto surreale che provoca immediatamente un sentimento di rabbia e quindi mi spinge a prendere parte: mi dico - poi - in modo forse fin troppo affrettato, perché al di là di ogni giustificazione possibile, ci sono delle motivazioni che è perlomeno utile conoscere, per avere contesto. 

La questione, banalmente, è che in assenza di manutenzione pubblica, molti si sentono legittimati a intervenire, e scelgono la scorciatoia più rapida, più economica e più antica: il fuoco. Se nessuno pulisce, ci pensano loro, ma il problema è che il paesaggio non è più quello di una volta: la vegetazione è più secca, il clima più estremo e tenere sotto controllo le fiamme è una scommessa. 

Da millenni, le piante di quest’area si sono adattate al fuoco, pastori e contadini lo usavano per rigenerare i pascoli, ma oggi la frequenza è cambiata: gli incendi sono tropPo, troppo intensi e troppo estesi. La vegetazione non ha più tempo di riprendersi, le radici si esauriscono e i semi muoiono. Le specie più delicate spariscono e al loro posto arriva vegetazione resistente ma monotona: il risultato è una pseudo-steppa decisamente poco attrattiva.

Il fuoco, insomma, seleziona, ma lo fa in un modo che non è più sostenibile. Perché distrugge la biodiversità, e appiattisce il paesaggio. La costa tra Nardò e Leuca, una delle aree più ricche di specie mediterranee, sta perdendo la sua forma e con essa, è a rischio anche il suo valore turistico, per chi avesse a cuore questo aspetto prima di quelli ambientale e paesaggistico. 

Bruciare per il gusto di bruciare è un'abitudine perversa che oggi si ripete “perché si è sempre fatto così”, ma il paesaggio non è più quello di una volta, e i danni si moltiplicano.

I social locali sono disseminati di segnalazioni di incendi. Vi si leggono commenti indignati in caps lock, ma anche appelli a comprendere le buone intenzioni di chi vuol far da solo per sopperire all’inerzia delle amministrazioni. Perché là dove manca il servizio pubblico, si dice, è normale che il privato intervenga. E spesso lo fa con il fuoco, rivendicando una forma di autogestione del territorio che è comprensibile per certi aspetti e del tutto paradossale per altri.

Ne scrivo qui non perché voglia sottolineare indignato il malcostume, alzando il ditino della civiltà, ma piuttosto per ricostruire l’immagine di un contesto dove sono tanti i fattori che concorrono un generale senso di irrealtà e di rischio.

Le ondate di calore, anzitutto: arrivo in Salento in una delle peggiori settimane dell'estate (finora). Molti i decessi segnalati in relazione alle temperature estreme. Almeno sei persone sono morte in pochi giorni, con due turisti deceduti in spiaggia a causa di malori improvvisi e altri tre decessi registrati.

La siccità, di conseguenza: nel mese di luglio si è parlato di temperature record che hanno superato i 40 gradi in diversi comuni del versante jonico, con Nardò che ha toccato 41,5 gradi. All'inizio del 2025 le disponibilità d'acqua erano già ridotte al 10% del volume autorizzato e al 33% di quanto raccolto nello stesso periodo dell'anno precedente. 

Negli ultimi mesi, la frequenza e l’intensità degli incendi nel Salento sono aumentate in modo allarmante, anche a causa delle condizioni climatiche eccezionalmente avverse. Diversi studi scientifici prevedono che, entro la metà del secolo, gli eventi di siccità severa ed estrema nella regione aumenteranno del 30–50%, con un’intensificazione complessiva della siccità fino al 50%, e punte dell’80% in alcune aree. Già a fine anni ‘10 la ricerca indicava che le temperature estive sarebbero potute aumentare tra +1.3 e +2.5°C entro il 2100.

Il paesaggio salentino porta anche i segni profondi, e ormai irreversibili, dell’epidemia di Xylella fastidiosa, aggravati dal cambiamento climatico sempre più estremo.

In molti campi, da anni arsi dal sole, le piante di ulivo senza vita formano file di tronchi spezzati e rami recisi: sono sagome scure, allineate nella polvere, che disegnano un cimitero vegetale. Alcuni terreni sono già stati riconvertiti, altri invece restano in attesa di futuri interventi. Decido di non scattare foto per indulgere nell'estetismo della morte.

L’epidemia di Xylella fastidiosa rimane in regione Puglia la principale emergenza fitosanitaria, con circa il 40% del territorio regionale incluso nella zona infetta — un’area vasta che ha subito la perdita di milioni di ulivi, con danni stimati fino a 750.000 ha colpiti e oltre 22 milioni di alberi coinvolti (dati fino al 2018).

La ricerca mostra come i focolai di Xylella fastidiosa nel Salento si verificano durante periodi caratterizzati da scarse precipitazioni e siccità severa, collegando gli anni di maggiore siccità ai principali episodi epidemici.


Da questo Salento in fiamme mi porto via l’immagine dell’ulivo che brucia lentamente nel silenzio, nessuno intorno, se non un uomo che osserva. Non so se fosse stato lui ad aver acceso il fuoco. Ma so che eravamo lì, entrambi, davanti alla stessa scena. E in quel momento, era impossibile capire se stavamo assistendo alla fine di qualcosa, o all’inizio di qualcos’altro.

Mi chiedo cosa resterà di tutto questo fra qualche decennio. Non in senso astratto — “del paesaggio, della biodiversità, della memoria” — ma proprio in senso concreto: cosa vedranno gli occhi. 

Tornerò qui per riagganciare l’immagine di futuro che mi sono fatto: la mia personale - e parziale - idea di futuro per questi luoghi parte dalla preistoria di Porto Selvaggio, con i suoi frammenti litici da un passato remoto ben incastrato nel presente di un paesaggio che esiste perché è stato difeso, pensato, voluto e restituito alla collettività.