Il futuro come alibi. Su "Un giorno tutti diranno di essere stati contro" di Omar El Akkad

Da qualche tempo, per molte delle persone con cui ne parlo – e sicuramente per me – si è fatta strada una forma di ottundimento per i fatti del mondo difficile da risolvere. Non la definirei stanchezza, né un vero distacco razionale. È qualcosa di più ambiguo, che coinvolge insieme l’attenzione, la sensibilità e la volontà. Si continua a guardare a ciò che accade, ma si fa sempre più fatica a trasformare questa esposizione in pensiero, in parole, in una posizione che abbia un senso. Mi capita più o meno ogni giorno di condividere con altre persone la sensazione che la nostra capacità di reazione si stia consumando a poco a poco, fino a lasciare il posto a un'inazione esausta.
Per chi vive in una realtà relativamente protetta, in un angolo dell’Occidente dove la violenza resta altrove, mediata da schermi e parole altrui, questa sensazione si radica in un paradosso ben noto: più l’informazione si fa accessibile, continua e totale, più la risposta morale si fa incerta.
Questo stato di sospensione e allentamento emotivo dalle principali tragedie dei nostri giorni è entrato di recente in risonanza schizofrenica con le risposte tardive e prudenti della politica, italiana nello specifico. Solo nelle ultime settimane alcune voci istituzionali hanno iniziato a nominare, con maggiore chiarezza, la tragedia in corso a Gaza. Le parole del Presidente Mattarella, nette e inappuntabili sul piano morale, hanno rotto un silenzio imbarazzante. Eppure, anche laddove si è alzata una voce autorevole, la sensazione è che arrivi comunque tardi e nel momento meno scomodo.
Anche i segnali che provengono dal governo e dai suoi rappresentanti sembrano seguire questa logica: arrivano a mezze parole e con gli immancabili equilibrismi quando l’evidenza della catastrofe è tale da non poter più essere ignorata.
Così, la reazione pubblica si trova in un cortocircuito ulteriore: tra chi prova ancora a sentire e a capire, e chi — nelle istituzioni o nei media — interviene solo quando è diventato comodo farlo. Come potete lontanamente credere di venir ancora presi sul serio? Mi chiedo.
Ma ciò che rende questi tempi sommamente schizofrenici è che anche la cattiveria non si nasconde più. Non finge e non si maschera di valori universali perchè con le destre egemoni è diventata linguaggio, programma politico, identità. La politeness del liberalismo, insomma, si è logorata sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, e al suo posto si è imposto un discorso che considera l’empatia inefficiente, disfunzionale e lo dice a chiare lettere. C’è perfino chi, con toni da scienza comportamentale o da darwinismo sociale, si premura di dimostrare perché preoccuparsi degli altri sia un errore evolutivo.
Anche da qui nasce lo spaesamento. Dalla sensazione, assai scomoda, che lo smascheramento compiuto dalle nuove destre, per quanto strumentale e violento, colga qualcosa di vero. Denuncia l’ipocrisia di chi, con una mano, firma il missile e con l’altra si dice addolorato per le vittime civili. Lo fa senza infingimenti, e questo lo rende assai efficace, con il problema non da poco che non lo fa di certo per cambiare rotta, ma per legittimare un’alternativa ancora più egoistica, feroce e impermeabile al dolore altrui.
È più o meno questo il contesto sconnesso in cui mi sono avvicinato nello scorso fine settimana a Un giorno tutti diranno di essere stati contro di Omar El Akkad, pubblicato in italia da Gramma/Feltrinelli. Pochi giorni fa ne avevo letto su Medusa newsletter, che tra le molte che seguo è una delle poche che leggo sempre con attenzione.
"Un giorno" è un testo breve, ibrido, scritto da un giornalista egiziano cittadino statunistense, già noto per i suoi reportage da zone di conflitto e per il romanzo American War. Non è un saggio, né un libro di attualità, piuttosto direi un dispositivo critico, costruito per interrogare e provocare il nostro modo di rapportarci alla violenza, alla distanza e al tempo.

Il titolo del libro nasce da un tweet pubblicato da El Akkad il 25 ottobre 2023, in cui denunciava apertamente la complicità dei centri di potere politici e culturali nella violenza in corso a Gaza.
“Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro”
Dopo aver completato una prima bozza del testo, fu il suo editor a suggerire di riprendere quel tweet come titolo, che è un'accusa rivolta non solo a chi ha taciuto, ma a un intero ordine discorsivo che si attiva solo quando è troppo tardi, quando opporsi è diventato socialmente accettabile, culturalmente gestibile e politicamente innocuo.
Il risultato è un testo che tiene insieme riflessione politica, memoria personale, e polemica scavando nel rapporto irrisolto dell’autore con l’Occidente e i suoi miti fondativi: la libertà, l’uguaglianza, i diritti. Un rapporto segnato da delusioni profonde, da disillusioni accumulate, e da un presente in cui – scrive – la bancarotta morale del liberalismo occidentale è ormai evidente. Un sistema che ha sacrificato ogni etica in nome del comfort materiale, e che non è più in grado di offrire alcuna credibile autorità morale.
Secondo El Akkad, il genocidio di Gaza rappresenta una soglia:
Verrà ricordato come il momento in cui milioni di persone hanno guardato all’Occidente, all’ordine basato sulle regole, al guscio vuoto del liberalismo moderno e alla macchina capitalistica che lo sostiene, e hanno detto: non voglio avere più nulla a che fare con tutto questo.
El Akkad parte da Gaza, ma non si limita a Gaza. Si interroga su un meccanismo più ampio e ricorrente nelle democrazie liberali: quello per cui la violenza non viene negata esplicitata, ma “spostata”. Non si nega ovvero che ci sia stato un torto, ma si rimanda il momento in cui riconoscerlo, ammettendo il danno solo quando è troppo tardi per intervenire, quando non comporta più responsabilità né conseguenze. È così che il dolore può essere inglobato nel discorso pubblico senza destabilizzarlo: le vittime possono essere onorate, ma solo dopo che sono state rese innocue e le resistenze diventano accettabili solo quando sono concluse o trasformate in simboli inoffensivi. Il lutto, insomma, è concesso, ma alla dovuta distanza di sicurezza.
Questa logica non è nuova, né limitata al caso israelopalestinese. El Akkad richiama esempi precisi: la guerra in Iraq, il trattamento dei detenuti a Guantanamo, la reazione postuma alle violenze razziali negli Stati Uniti. In tutti questi casi, il riconoscimento ufficiale arriva quando la rimozione è già compiuta e la sofferenza diventa materia di commemorazione. Il titolo del libro è una provocazione che riassume perfettamente questa dinamica: un giorno, tutti diranno di essere stati contrari. Ma lo diranno dopo, quando sarà sicuro e forse persino conveniente. Quando il silenzio sarà diventato più rischioso della parola.
El Akkad definisce questo meccanismo con un’espressione efficace: il periodo obbligato di attesa. È lo spazio di tempo che intercorre tra l’orrore e il suo riconoscimento pubblico. Un tempo in cui il trauma è reale, presente, evidente, ma non ha ancora cittadinanza nel linguaggio ufficiale.
Scrivere in quel tempo, sostiene, significa sottrarsi sia alla cronaca, che tende a semplificare, sia alla memoria, che tende a chiudere. Significa mantenere aperta una ferita che il discorso politico e mediatico cerca già di cicatrizzare.
Anche la forma del libro risponde a questa esigenza: Un giorno tutti diranno di essere stati contro è del tutto frammentario, denso, non lineare, talvolta ridondante. E questo, credo, non per un fallimento della struttura narrativa ma perché El Akkad non vuole tanto spiegare o convincere, ma semmai interrompere il processo attraverso cui l’orrore viene normalizzato e quindi vuole disturbare. Il suo obiettivo non è portare dalla sua parte, ma impedire che ci si abitui. Che si possa guardare, comprendere e poi passare oltre.
Ricordo con precisione quando, per me, nei recenti periodi di guerre ho cominciato a guardare oltre: fu il massacro di Bucha in Ucraina, nella primavera del 2022. Dopo un primo impatto emotivo fortissimo, cominciai a percepire un distacco crescente. Continuavo a leggere, a seguire gli aggiornamenti, ma non riuscivo più a sentirmi davvero coinvolto. Come se dentro si fosse attivato un riflesso di difesa: “non posso assorbire altro, non serve continuare a sentire”. Da allora, quella distanza si è allargata. Anche davanti a Gaza, mi sono scoperto stanco, quasi svuotato, profondamente turbato ma senza più la forza di reagire come un tempo. E come me, credo, molte e molti altri attivisti da poltrona.
El Akkad ci lascia una parzialissima consolazione: perché non tratta questo spaesamento solo come un fallimento individuale. Lo legge come il sintomo di un sistema che ha imparato a trasformare l’esposizione al dolore in passività. Che consente di vedere tutto senza dover scegliere e che produce condizioni in cui persino la condanna morale diventa un atto calcolato, regolato da criteri di opportunità.
Così, anche gli appelli più condivisi – quelli che invocano la fine di una strage, la protezione dei civili, l’urgenza del cessate il fuoco – finiscono per apparire spesso fuori tempo. Non tanto per colpa di chi li lancia, ma per la logica che li rende pubblicabili solo quando la realtà che denunciano è già stata metabolizzata.
Un giorno tutti diranno di essere stati contro mi ha dato lo scossone che probabilmente cercavo, aiutandomi a decifrare certi silenzi e certi ritardi.
Perché mostra come la distanza dai fatti del mondo non sia solo geografica, ma anche temporale e linguistica. Come l’assenza di reazione non nasca sempre da ignoranza o cinismo, ma da un processo di anestesia graduale, sociale e culturale. E come prendere parola richieda anche il coraggio di non aspettare il momento giusto: di esporsi quando non è ancora chiaro se farlo porterà a qualcosa.
Restare nel tempo sospeso. Non cedere alla rimozione. Continuare a scrivere, parlare, nominare, disturbare.