"Say disruptive one more time": è possibile governare il mondo come fosse un start-up?

Se internet fosse ancora quel posto caotico ma intelligente che ricordiamo, il modo migliore per aprire questo pezzo sarebbe con questo meme: Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, pistola puntata, esasperato da una parola sentita troppe volte.
Ci ricordiamo tutti vero di quella parola urticante, disruptiveness? Per qualche anno è stata ovunque nei discorsi sull’innovazione, nei manifesti delle startup, nei panel delle conferenze di settore. L’ideale dirompente che celebrava il rovesciamento dello status quo, l’abbattimento delle strutture consolidate in nome di un futuro più efficiente, più tecnologico, più libero. In teoria.
La teorizzò negli anni ’90 Clayton Christensen per descrivere quei cambiamenti radicali che rendono obsolete intere industrie – da Netflix con il noleggio dei DVD, agli smartphone con le macchine fotografiche compatte, a Uber con i taxi. E via via che i ragazzi si sono fatti grandi, la disruptiveness ha smesso di essere solo un concetto economico per diventare una sorta di ethos, un imperativo culturale e politico.
L'abbiamo sentita salmodiare per anni l'esortazione a distruggere per ricostruire, senza preoccuparsi troppo di cosa andava in frantumi nel processo, ma nelle ultime settimane abbiamo fatto un salto quantico: stiamo vedendo quell’idea della disruptive innovation come motore del progresso tecnologico diventare una disruptiveness totalizzante (totalitaria?), applicata alla società, alla politica, al governo. Ciao modello di business: avanti strategia di potere.
I suoi effetti si misurano non più solo nei grafici di crescita delle startup, ma nei clamorosi programmi di smantellamento degli apparati governativi a cui stiamo assistendo. La logica del “rompere tutto per rifare meglio” si è trasformata in un sistematico tentativo di demolizione delle istituzioni, delle regole condivise, delle basi della convivenza democratica. A eseguire i piani di smantellamento e revisione dell’apparto statale, si dice, che ci siano dei ventenni già affiliati nella maggiori aziende di Musk. Finalmente potranno amministrare lo Stato come una start-up. Ma per non sopravvalutare troppo l’intelligenza e le capacità di gestione dei bros dovremmo forse chiederci: si rendono effettivamente conto dei rischi di fallimento che corrono? Hanno davvero tutto sotto controllo come si potrebbe pensare?
Trovo quasi perfetta la coincidenza tra il “tutto quello che sai è falso”, architrave illogico delle argomentazioni complottiste, e il “tutto quello che hanno fatto gli altri non funziona” che guida il piano di golpe burocratico dell’attuale governo americano. Se la disruptiveness ha avuto una traiettoria, eccoci al punto di arrivo: non più un’innovazione che supera il vecchio, ma un’accelerazione distruttiva che divora tutto.
Negli Stati Uniti di Trump, trasformati in un laboratorio di smantellamento, i cambiamenti avvengono a una velocità tale da superare la nostra capacità di coglierne appieno la portata. Ci troviamo in una nuova fase, con conseguenze di un'ampiezza che fino a pochi mesi fa sarebbe stata impensabile. Niente sembra esserne escluso: istruzione, economia, sanità, scienza, multilateralismo, aiuti umanitari, clima, genere.
Alla sensazione di essere sulla soglia di un trasformazione epocale si aggiunge la comprensibile difficoltà di capirla, ed è quasi confortante leggere firme autorevoli dichiararsi loro stesse incapaci di stare al passo con l’accelerazione distruttiva di Elon Musk e del governo: è qualcosa da comprendere razionalmente certo, e a cui reagire strategicamente (Europa potresti dire qualcosa di serio?), ma anche qualcosa di fronte a cui è importante riconoscere e socializzare il senso di paura e tristezza che ci avvolge. Ci abitueremo, senza dubbio, perché non c’è davvero un limite entro cui è impossibile spostare l’asticella di ciò che si può dire e fare. Alla maggior parte di noi, in fondo, la vita non sta cambiando, perché preoccuparsi?
Non so ancora se sviluppare ulteriori riflessioni, simili a questa; vorrei forse concentrarmi su interessi più micro ed evitare le letture di troppo ampio respiro. Vorrei continuare a dislocare lo sguardo leggendo di Asia, Caucaso, Medio Oriente e sentirmi più libero dalla fomo dell'informazione di questi giorni. Ma temo che ci serva un diario, una cronaca personale di ciò che sta accadendo e di come ci sentiamo di fronte a tutto questo. Negli ultimi anni, questa urgenza di rallentare gli eventi mettendo delle memo note in giro per il muro, giorno dopo giorno e per non perdere il filo, l’ho sentita fin troppe volte: il Covid, la guerra in Ucraina, la Palestina.
Penso sempre di più che la condivisione di pensieri, emozioni e idee concrete possa spostarsi lontano dalle piattaforme social. C’è ancora spazio per attivarci su canali più informali, come newsletter e blog. Non ho grandi illusioni su una rinascita di un internet più democratico, ma credo che questa sia, ormai, una delle poche alternative rimaste.
- Rimando per una riflessione strutturata su questi temi al recente pezzo di Tiziano Bonini "Progettare la diserzione dalle piattaforme"
Cosa sto leggendo, e quindi cosa sto pensando, (anche solo per ricordamene):
- Terminato Pianeta Caucaso di Wojciech Górecki, ho scoperto che Keller ne ha da pochissimo pubblicato anche un altro: Abcasia. Ne sono molto felice.
- Continuo a orientarmi agli stan dell'Asia Centrale con letture asistematiche e sparse, in vista di un probabile viaggio estivo: Erika Fatland, Tino Mantarro, Colin Thubron.
- Ultimi giorni per terminare Dalla parte del suolo di Paolo Pileri, che venerdì prossimo ospitiamo alla rassegna MondoCult. Prima del suo intervento verrà a trovarci l'amico e collega Milo Adami, uomo di cinema d'ambiente e di documentario che da noi proietta Mirabilia Urbis, il suo importante lavoro su Antonio Cederna. Le due cose sono in stretta connessione. Senza il Cederna di ieri non avremmo avuto le sensibilità ambientaliste di oggi, e temo non sia mai troppo.

- Ho da poco finito Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini e mi ha riacceso per la letteratura italiana contemporanea, dopo un po' di mesi di diserzione. C’è qualcosa nel suo modo di scrivere che me lo fa sentire vicino a Francesco Pecoraro: forse quella capacità di intrecciare memoria, riflessione esistenziale e una lucidità terribile disincantata nel raccontare il mondo. Franchini ha un modo di scavare dentro l’esperienza personale che va oltre l’autobiografia e diventa quasi una forma di analisi collettiva. E questo mi affascina. Mi piace quando un autore riesce a trasformare il vissuto individuale in qualcosa di più ampio, senza per forza cercare la spettacolarizzazione del racconto e, in questo caso, in assenza quasi completa di trama. Forse è anche una questione di tono, di linguaggio. Quella prosa che non ha paura di essere densa, precisa, ma che sa anche lasciarti spazi vuoti per pensare. Ti porta dentro certe ossessioni senza doverle dichiarare troppo, ti lascia intuire il sottotesto. E in questo, Pecoraro mi sembra un riferimento naturale. Mentre leggevo mi è venuto voglia di riprendere in mano per l'ennesima volta Lo stradone o La vita in tempo di pace ma di rileggere davvero sono in pochi ad avere il coraggio.
- Sto andando molto a rilento con Diluvio di Stephen Markley, 1200 pagine di narrazione corale, in cui si raccontano le storie di attivisti, scienziati, politici, lobbisti e cittadini comuni, mettendo in scena il conflitto tra coloro che cercano soluzioni alla catastrofe climatica e chi invece la nega o la sfrutta per interessi personali. Non so come procederò, di certo mi chiedo se non fossero state accettabili perlomeno 400 pagine in meno. Mi vien voglia, anche qui, di rimettermi su Underworld di De Lillo.
Piove molto e le temperature sono un po' più basse: riconosco l'atmosfera casalinga dei mesi di febbraio della mia infanzia. È quasi dolce, oggi, rassegnarsi alla lentezza pomeridiana dentro alle mura di casa. In fondo è il mio sabato ideale, nonostante le premesse dell'articolo.