Comunicare la ricerca dall’interno: l'esperienza del community blog di OnFoods

Comunicare la ricerca dall’interno: l'esperienza del community blog di OnFoods

All’interno delle attività di comunicazione istituzionale previste dal progetto OnFoods – Research and Innovation Network on Food and Nutrition Sustainability, Safety and Security, insieme ai colleghi di Dinamo, ho curato la progettazione e la realizzazione di un sistema narrativo capace di rendere visibile e accessibile, anche a un pubblico non specialistico, l’identità di un partenariato ampio e articolato.

Accanto agli strumenti più canonici — il sito web, i canali social, i materiali editoriali di progetto — abbiamo deciso di sperimentare un formato che mettesse al centro la voce diretta delle ricercatrici e dei ricercatori: è nato così l’OnFoods Research Community Blog, un’iniziativa portato avanti con i colleghi Flavio Pintarelli e Filippo Guidarelli che si aggiunge e integra la comunicazione istituzionale del progetto, offrendo uno spazio editoriale autonomo e partecipativo.

Il blog non è stato pensato come un semplice canale di “disseminazione”, ma come un piccolo programma culturale e formativo, in cui le persone che fanno ricerca possano imparare a raccontare il proprio lavoro in modo chiaro, coinvolgente, rigoroso. Non una vetrina insomma, ma piuttosto una palestra: uno spazio in cui esercitarsi, confrontarsi, apprendere — e anche esporsi.

Il percorso si è sviluppato attraverso un ciclo di seminari, workshop e affiancamenti individuali, durante i quali abbiamo lavorato insieme alla definizione di un piano editoriale condiviso, alla scrittura degli articoli e alla costruzione di una voce narrativa chiara, leggibile e affidabile. Il risultato è una raccolta di contributi che raccontano i temi e le sfide di OnFoods dall’interno, attraverso lo sguardo di chi fa ricerca ogni giorno: nei laboratori, nelle aule, nei territori.

Il Research Community Blog è quindi allo stesso tempo una piattaforma, un laboratorio e un esercizio collettivo. È una piccola ma concreta risposta alla necessità di costruire nuovi modi per comunicare la scienza, partendo dalla consapevolezza che oggi — più che mai — la qualità della ricerca si misura anche nella sua capacità di raccontarsi al mondo. Ma dietro a tutto questo ci sono questioni complesse, che sfondano i tavoli, come diceva il vecchio prof. dell'estinta disciplinare della Filosofia della Storia.

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Medializzazione della scienza: opportunità, rischi, nuove responsabilità.

Nel costruire questo progetto ci siamo confrontati fin da subito con una mutazione ormai matura: la progressiva e non certo nuova medializzazione della scienza, ovvero l’integrazione crescente delle logiche mediatiche nella pratica della ricerca. Il modo in cui la scienza comunica (e si comunica) non è più un’attività accessoria, ma una dimensione strutturale del fare ricerca, legata non solo alla cosidetta “terza missione” delle università, ma a una più generale trasformazione del rapporto tra produzione di sapere e spazio pubblico.

Le ricercatrici e i ricercatori sono oggi sempre più chiamati a farsi narratori del proprio lavoro: a spiegare, a prendere posizione, a “rendere conto” di ciò che fanno. E questo accade in un ecosistema informativo in cui i media tradizionali hanno perso centralità, mentre cresce l’importanza dei canali diretti — blog, social network, newsletter — e la responsabilità individuale nella costruzione di contenuti.

La c.d disintermediazione della comunicazione scientifica ha aperto senza dubbio nuove possibilità: permette ai ricercatori di prendere la parola direttamente, di modellare in prima persona il racconto del proprio lavoro, di affermare un controllo maggiore sul contenuto e sulla sua messa in forma. Ma questa autonomia si accompagna a una serie di fragilità strutturali che meritano attenzione. L’assenza di mediazione giornalistica o editoriale può infatti generare un senso di solitudine comunicativa, in cui la mancanza di confronto esterno riduce la possibilità di costruire narrazioni dialogiche e realmente pubbliche. A ciò si aggiunge il rischio di autoreferenzialità, o peggio di un uso strumentale della comunicazione come leva reputazionale all’interno delle logiche valutative dell’accademia contemporanea.

In un contesto segnato da pressioni crescenti sulla produttività scientifica, precarietà diffusa e carichi di lavoro multidimensionali, la richiesta di essere anche efficaci comunicatori può trasformarsi in un ulteriore fattore di stress, contribuendo a una dilatazione delle responsabilità individuali che non trova quasi mai un corrispettivo in termini di riconoscimento o risorse. La disintermediazione, così intesa, rischia di diventare una delega implicita da parte delle istituzioni, che scaricano sui singoli ricercatori il compito di presidiare lo spazio pubblico, senza offrire strumenti adeguati, né costruire alleanze stabili con chi, della comunicazione, ha fatto una professione.

Più in profondità, si pone una questione secondo molti cruciale: chi ha il compito di raccontare la scienza? Se i ricercatori diventano anche comunicatori, cosa accade al ruolo della stampa scientifica, dei giornalisti specializzati, delle redazioni editoriali? Non rischiamo, in nome dell’efficienza e dell’autonomia comunicativa, di sostituire piuttosto che integrare?

Inoltre, la crescente tendenza delle istituzioni accademiche a dotarsi di canali e staff interni per gestire la comunicazione (una tendenza che rientra in ciò che alcuni definiscono, con una certa ambivalenza, “accademia imprenditrice”) solleva un paio di domandine. Se da un lato permette maggiore coerenza e controllo sull’immagine pubblica, dall’altro può trasformare la comunicazione scientifica in un esercizio di branding, più attento alla reputazione che alla qualità del dibattito. E qui sta molta della responsabilità che un comunicatore può o non può applicare nel suo lavoro.

Lavorare insieme: mediazione e co-scrittura

L'idea che mi sono fatto in questi mesi di lavoro con chi la ricerca la fa, è che per affrontare queste tensioni, serve una bella amicizia tra ricerca e comunicazione, che non sia basata sulla delega cieca né sull’autosufficienza. Il modello sperimentato con l’OnFoods Research Community Blog vorrebbe andare in questa direzione: i contenuti sono scritti dai ricercatori, ma accompagnati da un processo redazionale che coinvolge consulenti della comunicazione, giornalisti, revisori esperti.

Non si tratta di “mettere le parole a posto”, ma di costruire una filiera della comunicazione scientifica che riconosca la specificità dei diversi ruoli: chi fa ricerca porta il sapere, chi fa comunicazione aiuta a renderlo pubblico in modo efficace, chi dirige i progetti garantisce coerenza e apertura.

La nostra esperienza dimostra che questa amicizia è possibile. Non è facile, richiede tempo, fiducia, risorse. Ma quando funziona, i risultati sono evidenti: non solo articoli più leggibili, ma ricercatori più consapevoli, progetti più trasparenti, istituzioni più credibili.

Storytelling e scrittura scientifica: due modi di mettere ordine nel mondo

È proprio nella scrittura che si è aperta, durante il lavoro del blog, un faglia riflessione: la differenza — non tanto di valore, quanto di funzione — tra la narrazione e la scrittura accademica. Due modalità diverse di mettere ordine nel mondo.

Da un lato, la scrittura “paperistica”, regolata da norme formali, vincoli di struttura, citazioni puntuali, ha come obiettivo la dimostrazione argomentata di un risultato all’interno di una comunità scientifica. È una forma di linguaggio altamente codificata, costruita per essere verificabile, riproducibile, integrabile in un campo di conoscenze. È pensiero che si ancora, che si esplicita secondo regole note, che si sviluppa per blocchi logici.

Dall’altro lato, lo storytelling — se condotto con onestà intellettuale e rigore — non è un abbellimento, ma un esercizio di ordine alternativo. Non argomenta per sezioni, ma costruisce senso attraverso le relazioni: tra eventi, persone, contesti, trasformazioni. Mette in fila le cose non per dimostrare, ma per far emergere nessi, domande, possibili significati. È un linguaggio che cerca la connessione, non la chiusura.

Nel blog, questa distinzione si è fatta pratica: ogni volta che un ricercatore cercava di "trasformare" un paper in un articolo divulgativo, il passaggio non era tanto una semplificazione, quanto una trasfigurazione di scopo. Non si trattava di ripetere in forma più semplice ciò che era già stato detto, ma di immaginare un’altra forma per dire una cosa simile, a un pubblico diverso, con altre finalità. Non convincere, ma coinvolgere. Non dettagliare, ma orientare.

In questo senso, scrivere per il blog spero che abbia funzionato come un esercizio cognitivo: un modo per ripensare le proprie conoscenze e riordinarle non secondo la logica interna della disciplina, ma secondo la logica esterna della rilevanza. Perché questo conta? Per chi? In che modo si può raccontare perché è importante, senza perdere ciò che lo rende affidabile?

Queste domande non sostituiscono certo quelle della ricerca, ma le affiancano. E chi scrive, lo sa: ogni forma ha il suo scopo. La scrittura scientifica organizza la conoscenza per produrre verità condivise. Lo storytelling, se usato consapevolmente, organizza la conoscenza per renderla leggibile, situata, vicina.

L’OnFoods Research Community Blog è stato, per molti dei partecipanti, una prima occasione per misurarsi con linguaggi nuovi. Alcuni di loro non avevano mai scritto; altri avevano già esperienza, ma hanno trovato nel confronto con i colleghi e con il nostro gruppo nuove prospettive. Tutti, però, hanno affrontato il passaggio dalla comunicazione accademica alla narrazione pubblica come una pratica da imparare. E questa dimensione laboratoriale è forse l’aspetto più significativo del progetto: il blog non si limita a mostrare i contenuti della ricerca, ma mostra tra le righe anche come si può imparare a raccontarli. Non propone insomma un modello preconfezionato, ma rappresenta un processo aperto, replicabile, adattabile ad altri contesti.

Nel farlo, risponde forse anche a una delle ambiguità più insidiose della cosiddetta accademia imprenditrice — quella descritta da studiosi come Sheila Slaughter, Gary Rhoades e Burton Clark — che spinge le istituzioni universitarie a competere sul piano della comunicazione senza sempre offrire le condizioni strutturali per farlo in modo etico, critico, partecipato. In un panorama segnato da valutazioni quantitative, metriche di impatto e logiche reputazionali, la comunicazione rischia di diventare un’arma promozionale. E allora, un antidoto efficace può essere tornare alla pratica: formare alla comunicazione come si forma alla ricerca, riconoscendone dignità, competenze e tempi.