Acque sovrane, epici disastri: il dispotismo idraulico dall'Armenia all'Asia Centrale.

La trasformazione forzata del Lago armeno di Sevan è la microstoria di un progetto più ampio, in cui l’acqua diventa infrastruttura ideologica, dispositivo narrativo e materia di controllo politico. Il mio nuovo articolo/patacchione spazia dal bacino più grande del Caucaso meridionale fino a ciò che rimane del Lago d’Aral, passando per la “letteratura idraulica” sovietica e le bonifiche del fascismo. Buona lettura.
Arrivando dal Nord dell'Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco Nazionale di Dilijan - detto anche Piccola Svizzera d'Armenia per i suoi paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi scompare, gli spazi allargano. Il lago, che occupa una conca di oltre mille chilometri quadrati a quasi duemila metri sul livello del mare è la principale riserva d’acqua dolce del Caucaso Meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia.
Le sue rive sono abitate sin dall'antichità: ce lo dicono i numerosi ritrovamenti archeologici, realizzati peraltro da gruppi di ricerca italiani, che attestano la presenza di insediamenti stabili e attività culturali significative nella regione. Uno dei siti più rilevanti è Lchashen, sulla sponda nord-occidentale del lago. Qui sono stati scoperti numerosi reperti, tra cui il famoso "Carro di Lchashen", un antico carro risalente all'età del bronzo, che testimonia l'avanzato livello tecnologico e culturale delle popolazioni locali. Il cimitero di Noraduz a pochi chilometri dalla riva occidentale è invece un archivio a cielo aperto della tradizione funeraria armena dove le linee del tempo si leggono nei differenti livelli di conservazione delle tradizionali croci di pietra. Qui, le più antiche ormai ricoperte di licheni, convivono accanto alle più recenti, tuttora realizzate artigianalmente in un laboratorio a conduzione familiare situato all’interno dell’area stessa.

Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia degli ultimi decenni, il lago Sevan continua a essere una meta ambita per il turismo interno, frequentata per le sue spiagge, le escursioni in barca, la pesca, i resti di architetture religiose che si trovano facilmente lungo le rive. Quella più nota si trova dove un tempo c’era un’isola – quella del monastero di Sevanavank – e oggi c’è una penisola, collegata stabilmente alla terraferma. Non è un dettaglio paesaggistico: è il segno concreto dell’abbassamento del lago, iniziato negli anni Trenta, quando l’acqua fu deviata per usi irrigui ed energetici.
Possiamo provare a immaginarci la scena da cui è iniziata questa storia: intorno al 1930, durante una delle prime spedizioni scientifiche sovietiche al lago di Sevan, alcuni tecnici raccolgono dati dall’acqua a bordo di una barca a remi. Si muovono con strumenti essenziali – funi graduate, bottiglie di campionamento, retini – per preparare la documentazione preliminare di quella che sarebbe diventata una delle tante opere idrauliche del periodo staliniano. Il livello del lago viene misurato con attenzione: oltre 1.916 metri sul mare, si annota. All’epoca Sevanavank è ancora un’isola, raggiungibile solo via barca. È da un scena simile di rilevamento e pianificazione che probabilmente ha origine la storia – tecnica, politica e ambientale – della trasformazione del Lago Sevan, uno dei primi esperimenti sovietici di ingegneria idraulica su scala ecologica. Il suo abbassamento drastico, a partire dagli anni Trenta, per scopi irrigui ed energetici, ne ha fatto un laboratorio di modificazione dell'ambiente e un esempio anticipatore dei ben più noti disastri del Lago d'Aral e del Golfo di Kara-Bogaz.
Già negli anni Venti, l'ingegnere civile Soukias Manasserian aveva proposto di sfruttare il potenziale del Sevan per la produzione di energia idroelettrica. Nel 1910 pubblicò uno studio, "Evaporating Billions and the Stagnation of Russian Capital", in cui suggeriva di abbassare il livello del lago di 45 metri per ridurre l'evaporazione e utilizzare l'acqua per scopi produttivi. L'idea, inizialmente accolta con cautela, venne rilanciata con vigore durante il Primo Piano Quinquennale: nel 1933 iniziarono i lavori per la costruzione di un tunnel di quasi 40 chilometri, destinato a convogliare le acque verso sud, lungo il fiume Hrazdan. Il tunnel fu completato nel 1949. Da quel momento, il lago cominciò a svuotarsi.
Tra gli anni Trenta e Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono gravi e in parte irreversibili: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono l'allarme già negli anni Sessanta, ma le loro preoccupazioni rimasero ai margini del dibattito ufficiale. Solo nel 1978 venne autorizzata la costruzione del tunnel Arpa-Sevan, completato nel 1981, per reintrodurre acqua dolce nel bacino. Dopo l'indipendenza dell'Armenia, un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel 2004. Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, minacciato oggi da eutrofizzazione e inquinamento.

Deviare fiumi, nutrire anime.
Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l'irrigazione intensiva del cotone: nacque così il ben noto disastro del lago d'Aral, che in pochi decenni si ritirò lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Caspio, chiuso artificialmente e trasformato in un bacino sterile. L'URSS rese l'acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio “Ingegneri di anime” (2020), l'Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e scrittori, chiamati entrambi a deviare i fiumi della geografia e dell'anima. La tesi di Westerman è che in Unione Sovietica il concetto di "dispotismo idraulico", formulato da Karl Wittfogel, trova la sua massima espressione: lo Stato totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la razionalità ecologica.
La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel modernismo industriale. Lenin sintetizzava l'essenza del comunismo come "potere sovietico più elettrificazione del paese". Stalin ne radicalizzò la visione: fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica, asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito.
Nel cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista. Alla cena organizzata da Maksim Gorkij nel 1932, Stalin proclamò:
“I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro paese. L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime”.

Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l'opera pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della modernità. Prima fra tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile solo grazie allo sfruttamento dell'opera manuale di milioni di condannati ai lavori forzati.
E i regimi autoritari europei?
L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa e simbolica non fu, chiaramente, un'esclusiva dell’Unione Sovietica. In forme diverse, anche gli altri regimi autoritari del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine, efficienza, potere.
In Italia, il fascismo pose al centro della propria narrazione pubblica la bonifica integrale, presentata come conquista di terra e civiltà. È questa l’immagine che più si è impressa nell’immaginario collettivo: la redenzione delle paludi malariche, la trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni, l’eroismo dei pionieri della terra nuova. Una narrazione amplificata da cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro, in cui la natura redenta doveva confermare la capacità del regime di costruire un ordine non solo sociale, ma anche ambientale.
Frank Snowden, storico dell'Università di Yale, ha analizzato l'impatto devastante degli interventi di bonifica durante il regime fascista italiano nel suo libro La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana 1900-1962 (Einaudi, 2008) e ci dice come tali operazioni abbiano comportato un costo umano elevatissimo, tra cui lo sradicamento di comunità rurali, l'imposizione di nuovi modelli di vita e un aumento significativo della mortalità tra i lavoratori impiegati nelle opere di drenaggio e risanamento.
Ma la politica idrica del fascismo non si esaurì nella pianura: anche in ambito montano, il regime promosse un’imponente opera di elettrificazione delle Alpi, con la costruzione di dighe e bacini idroelettrici – dalla Valtellina alla Val d’Aosta – che trasformarono il paesaggio alpino in una riserva energetica strategica per l’autarchia. L’intervento sul paesaggio montano, al pari di quello nelle zone paludose, si caricava di significati simbolici: la montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia, l’ingegneria al servizio della nazione. Anche qui, come nella bonifica, la trasformazione fisica del territorio si accompagnava a un disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Se il fascismo italiano trasformò il paesaggio in una scenografia del regime, il nazismo elaborò una teoria ancora più radicale, formalizzata nel concetto di Blut und Boden (sangue e suolo). Questa retorica, sviluppata dal Ministro dell’Agricoltura del Reich Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la sopravvivenza della “razza ariana” dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il territorio tedesco.
L'organizzazione del Reichsarbeitsdienst (RAD), che impiegava giovani nei lavori pubblici, trasformò il paesaggio in un rituale collettivo, fotografato e messo in scena in chiave pedagogica.
In tutte queste esperienze, la trasformazione dell'ambiente divenne oggetto di una macchina narrativa integrata: filmati di propaganda (La battaglia del grano, Il grano sotto la neve), architetture razionaliste, manifesti celebrativi dell'elettrificazione e dell'irrigazione, romanzi e saggi agiografici. Il paesaggio non era neutro: era un dispositivo di potere. L'acqua – bonificata, deviata, trattenuta – fu uno degli elementi privilegiati di queste operazioni ideologiche.
Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi, simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico. L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia.
La differenza rispetto al caso sovietico sta forse meno in una contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la natura – e l’acqua in particolare – veniva trattata come componente pienamente integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da rimodellare funzionalmente.
Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali: condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia pianificata sovietica, sostiene Westerman.
A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini, svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali, prosciugamenti artificiali.
Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma , sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell'Antropocene Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un'analisi della cosiddetta "frattura metabolica" tra società e natura. Per Marx, questa frattura – causata dall’estrazione intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione ecologica – non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista, trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito, quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica: la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di controllo.
Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege – opera che a ridosso del crollo del ‘92 segnò l’opinione pubblica occidentale con toni volutamente drammatici e generalizzanti – l’Unione Sovietica avrebbe trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare.
In questo quadro, il lago di Sevan può essere considerato un laboratorio preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni idrauliche realizzate in Asia centrale, ma già pienamente paradigmatico. La deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral.